https://www.huffingtonpost.it/2019/01/07/carige-anche-i-gialloverdi-salvano-le-banche-a-spese-nostre-come-il-pd_a_23636538/?utm_hp_ref=it-homepage&ec_carp=8814526113642075646&fbclid=IwAR02l_kdypP06R5rxtUb9T6ExzP5XkmS5pkump0CNz7F3p5x5YglqjOmmtM&ec_carp=4978763530730985395
Sono lontani i tempi, era luglio 2017, in cui i senatori 5 Stelle guidati dall'attuale ministro Barbara Lezzi gettavano false banconote da 500 euro a Palazzo Madama per protestare contro il salvataggio delle banche venete da parte dell'allora maggioranza a guida Pd. Sono ancora più lontani i tempi, parliamo del 2016, in cui Luigi Di Maio attaccava un giorno sì e l'altro pure l'allora premier Renzi per la gestione della crisi Mps, giurando e spergiurando che lui e il suo Movimento non avrebbero mai messo un centesimo dei soldi pubblici nelle casse degli istituti di credito. E ancora più remoti i tempi in cui Alessandro Di Battista, in versione Savonarola, arringava dagli scranni di Montecitorio contro il conflitto di interessi di Maria Elena Boschi nel caso Banca Etruria - pensate, era dicembre 2015. Ora, anno domini 2019, i 5 stelle sono al governo e puntuale come solo la morte sa essere nel Settimo Sigillo di Bergman, ecco che arriva la realtà dei numeri e della finanza a farsi nemesi storica. Come in una perversa legge del contrappasso adesso è la maggioranza gialloverde a dover varare in fretta e furia un decreto per salvare Carige, la banca di riferimento di una Genova sempre più colpita nel suo tessuto sociale e produttivo. E lo fa senza colpo ferire, di soppiatto, senza annunci, sperando quasi che nessuno se ne accorga.
Cosa è successo nella pratica? Che Conte e Tria hanno scritto e portato al Consiglio dei ministri un decreto che sarebbe potuto essere frutto dell'accoppiata Gentiloni-Padoan o Renzi-Padoan, fate voi. Carige è un istituto in forte difficoltà, unico fra gli italiani a essere stato bocciato agli stress test della Bce dello scorso novembre. Difficoltà acuita dal rifiuto dell'azionista di riferimento, la famiglia Malacalza, a sottoscrivere un aumento di capitale da 400 milioni per dare più solidità alla banca. Non a caso il 2 gennaio, il primo giorno utile dopo le feste natalizie, la Bce ha provveduto a commissariare d'urgenza Carige e dare mandato ai tre amministratori di portarla alle nozze con un istituto più grande e più stabile. Ma per fare questo non basta il mercato e i suoi spiriti animali e la mano invisibile che secondo la narrazione liberista tutto indirizza verso la soluzione migliore. Serve lo Stato, quello con la S maiuscola. Soprattutto i suoi soldi, che poi, alla fine della fiera, sono quelli dei contribuenti ovvero i nostri. E il governo gialloverde non si è fatto specie di aprire il portafogli, seppur non subito ma fra qualche tempo, forse dopo le elezioni europee, guarda caso. Conte e Tria hanno messo su un meccanismo per il quale ci sarà la garanzia dello stato sui futuri prestiti che Carige chiederà sia mediante bond che mediante finanziamenti diretti a Banca d'Italia. In altri termini, la banca genovese prenderà a prestito altri soldi ma se non riuscirà a restituirli toccherà pagare allo Stato. Ergo noi tutti. L'altro pezzo del meccanismo poi è ancora più immediato: se nei prossimi mesi la Bce chiederà a Carige di aumentare il proprio capitale per mettersi al sicuro in caso di crisi finanziarie, beh, Pietro Modiano e gli altri amministratori potranno chiedere e ottenere l'intervento diretto del Tesoro nel capitale. In poche parole, nazionalizzazione, come fatto un paio d'anni fa con Mps. E anche in questo caso parliamo di altri soldi pubblici dalle tasche dei tartassati alle casse della banca. Insomma, il cambiamento si è fermato a Eboli.
Forse però una cosa che è cambiata c'è. Ed è la modalità con cui tutto ciò è avvenuto. Il decreto salva-Carige è stato approvato in un Consiglio dei ministri estemporaneo, convocato a sorpresa, durato appena dieci minuti, alle dieci sera, lontano dai telegiornali, senza conferenza stampa finale da parte di Conte e Tria. E soprattutto senza la possibilità da parte dei ministri presenti di chiedere approfondimenti o meglio modifiche del testo. In questi giorni si è scritto tanto del parlamento svuotato nei primi sei mesi di governo gialloverde, ma forse da oggi bisogna cominciare a scrivere anche di ministri costretti, volenti o nolenti, a recitare lo spartito di utili yes men. Del resto, uno vale uno solo fra Di Maio e Salvini.
M5s-Lega hanno lucrato elettoralmente attaccando gli interventi dem a favore di Mps, Etruria e banche venete. Ora fanno lo stesso in un cdm-lampo di 10 minuti
Sono lontani i tempi, era luglio 2017, in cui i senatori 5 Stelle guidati dall'attuale ministro Barbara Lezzi gettavano false banconote da 500 euro a Palazzo Madama per protestare contro il salvataggio delle banche venete da parte dell'allora maggioranza a guida Pd. Sono ancora più lontani i tempi, parliamo del 2016, in cui Luigi Di Maio attaccava un giorno sì e l'altro pure l'allora premier Renzi per la gestione della crisi Mps, giurando e spergiurando che lui e il suo Movimento non avrebbero mai messo un centesimo dei soldi pubblici nelle casse degli istituti di credito. E ancora più remoti i tempi in cui Alessandro Di Battista, in versione Savonarola, arringava dagli scranni di Montecitorio contro il conflitto di interessi di Maria Elena Boschi nel caso Banca Etruria - pensate, era dicembre 2015. Ora, anno domini 2019, i 5 stelle sono al governo e puntuale come solo la morte sa essere nel Settimo Sigillo di Bergman, ecco che arriva la realtà dei numeri e della finanza a farsi nemesi storica. Come in una perversa legge del contrappasso adesso è la maggioranza gialloverde a dover varare in fretta e furia un decreto per salvare Carige, la banca di riferimento di una Genova sempre più colpita nel suo tessuto sociale e produttivo. E lo fa senza colpo ferire, di soppiatto, senza annunci, sperando quasi che nessuno se ne accorga.
Cosa è successo nella pratica? Che Conte e Tria hanno scritto e portato al Consiglio dei ministri un decreto che sarebbe potuto essere frutto dell'accoppiata Gentiloni-Padoan o Renzi-Padoan, fate voi. Carige è un istituto in forte difficoltà, unico fra gli italiani a essere stato bocciato agli stress test della Bce dello scorso novembre. Difficoltà acuita dal rifiuto dell'azionista di riferimento, la famiglia Malacalza, a sottoscrivere un aumento di capitale da 400 milioni per dare più solidità alla banca. Non a caso il 2 gennaio, il primo giorno utile dopo le feste natalizie, la Bce ha provveduto a commissariare d'urgenza Carige e dare mandato ai tre amministratori di portarla alle nozze con un istituto più grande e più stabile. Ma per fare questo non basta il mercato e i suoi spiriti animali e la mano invisibile che secondo la narrazione liberista tutto indirizza verso la soluzione migliore. Serve lo Stato, quello con la S maiuscola. Soprattutto i suoi soldi, che poi, alla fine della fiera, sono quelli dei contribuenti ovvero i nostri. E il governo gialloverde non si è fatto specie di aprire il portafogli, seppur non subito ma fra qualche tempo, forse dopo le elezioni europee, guarda caso. Conte e Tria hanno messo su un meccanismo per il quale ci sarà la garanzia dello stato sui futuri prestiti che Carige chiederà sia mediante bond che mediante finanziamenti diretti a Banca d'Italia. In altri termini, la banca genovese prenderà a prestito altri soldi ma se non riuscirà a restituirli toccherà pagare allo Stato. Ergo noi tutti. L'altro pezzo del meccanismo poi è ancora più immediato: se nei prossimi mesi la Bce chiederà a Carige di aumentare il proprio capitale per mettersi al sicuro in caso di crisi finanziarie, beh, Pietro Modiano e gli altri amministratori potranno chiedere e ottenere l'intervento diretto del Tesoro nel capitale. In poche parole, nazionalizzazione, come fatto un paio d'anni fa con Mps. E anche in questo caso parliamo di altri soldi pubblici dalle tasche dei tartassati alle casse della banca. Insomma, il cambiamento si è fermato a Eboli.
Forse però una cosa che è cambiata c'è. Ed è la modalità con cui tutto ciò è avvenuto. Il decreto salva-Carige è stato approvato in un Consiglio dei ministri estemporaneo, convocato a sorpresa, durato appena dieci minuti, alle dieci sera, lontano dai telegiornali, senza conferenza stampa finale da parte di Conte e Tria. E soprattutto senza la possibilità da parte dei ministri presenti di chiedere approfondimenti o meglio modifiche del testo. In questi giorni si è scritto tanto del parlamento svuotato nei primi sei mesi di governo gialloverde, ma forse da oggi bisogna cominciare a scrivere anche di ministri costretti, volenti o nolenti, a recitare lo spartito di utili yes men. Del resto, uno vale uno solo fra Di Maio e Salvini.
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