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La "guerra" dei dazi tra USA ed Europa rischia di degenerare, anche se alla fine le due sponde dell'Atlantico potrebbero trovare un accordo grazie all'euro.
I dazi di Donald Trump su acciaio e alluminio stanno facendo infuriare l’Europa, che con il vice-presidente della Commissione UE, Valdis Dombrovskis, ha minacciato nei giorni scorsi ritorsioni con l’imposizione di tariffe su prodotti americani importati. La sola Germania ha esportato negli USA oltre 1 milione di tonnellate di acciaio nel 2017, l’Italia altre 400.000. Europa, Corea del Sud, Canada, Messico, Brasile e Russia figurano tra le principali potenze economiche colpite da Washington con questa mossa, mentre i cinesi si attestano all’11-esima posizione tra le economie esportatrici di acciaio negli USA con le loro oltre 700.000 tonnellate vendute agli americani per un controvalore complessivo di appena 1 miliardo di dollari. E’ evidente come il destinatario dei dazi di Trump non sia la Cina, ma proprio gli alleati, anche se l’esclusione assicurata a Canada e Messico restringe il campo sostanzialmente all’Europa, come testimonia un’altra minaccia del presidente americano subito dopo che la scorsa settimana si erano diffuse le voci dei dazi, ovvero che saranno colpite anche le auto europee.
La sola Germania vanta un surplus commerciale di 60 miliardi di dollari all’anno con gli USA e vi esporta automobili per un valore compreso tra 20 e 25 miliardi, un ottavo di tutte le importazioni effettuate dagli USA di auto dal resto del mondo, a loro volta pari a circa un quarto del totale mondiale. Insomma, non stiamo parlando di interessi secondari. A Trump serve tenere fede alla promessa elettorale resa ai lavoratori della “Rust Belt” di tutelare gli interessi industriali locali, proteggendo la manifattura dalla concorrenza “sleale” straniera. E se la Cina viene accusata senza mezzi termini di fare dumping, l’Europa è sotto accusa per quel suo euro, il quale risulterebbe sottovalutato per alcune economie dell’unione monetaria, ovvero per la Germania per prima.
Secondo Trump, parte dell’immenso avanzo commerciale tedesco sarebbe dovuto alla debolezza dell’euro, che crea un vantaggio competitivo costante per la macchina produttiva teutonica. Ecco perché nei giorni precedenti al suo ingresso alla Casa Bianca, l’allora presidente-eletto dipinse la UE come “uno schermo dietro cui si nascondono gli interessi della Germania”. In totale, la UE, che include anche i 9 stati non appartenenti all’Eurozona, ha esportato negli USA sopra i 150 miliardi di dollari in più di quanto non abbia importato nel 2017.
La possibile intesa sull’euro
Ma come farà Trump a ottenere un rafforzamento dell’euro da parte dell’area? Paradossalmente, qui gli verrebbe in aiuto proprio la Germania, che da controparte commerciale e politica si dovrebbe trasformare nei prossimi anni in alleata degli americani. Sì, perché dopo che sarà scaduto il mandato di Mario Draghi come governatore della BCE nell’ottobre del 2019, molto probabilmente spetterà ai tedeschi nominare il successore e in corsa per la carica vi è da tempo il “falco” Jens Weidmann, numero uno della Bundesbank. Con i tedeschi a guidare l’istituto, la politica monetaria diverrà più restrittiva, ossia vi saranno la cessazione definitiva degli stimoli monetari e il rialzo dei tassi. Musica per le orecchie di Trump, perché la minore divergenza monetaria con la Federal Reserve rafforzerebbe il cambio euro-dollaro, rendendo le merci americane relativamente più competitive di quelle europee.
Per la precisione, la BCE non agirebbe sotto scopa degli americani, semplicemente il nuovo corso a Francoforte coinciderebbe con le pretese avanzate da Washington e la Germania fingerebbe di acconsentire alle richieste, dissuadendo Trump dall’imboccare definitivamente la strada dei dazi, almeno non ai danni dell’Europa. Chissà se l’altro ieri, nel compiere un altro piccolo passo verso l’uscita dal piano di accomodamento monetario con la modifica del testo del comunicato finale, la BCE non abbia già voluto segnalare alla Casa Bianca buone intenzioni sul fronte del cambio, facendo immaginare a Trump che l’euro sia destinato ad essere sempre più rivalutato nei prossimi mesi?
Rischio imminente di escalation sui dazi
Per ora, il rischio consiste nel varo di ulteriori dazi da parte dell’amministrazione americana per evitare distorsioni paradossali conseguenti a quelli già comminati. Ad esempio, imponendo tariffe su acciaio e alluminio, le case automobilistiche straniere, tra cui tedesche, troverebbero più conveniente vendere sul mercato americano veicoli prodotti non più in loco con le materie prime importate dall’estero a prezzi più alti, bensì in patria. Ad esempio, la Volkswagen potrebbe farsi due conti e capire che non sarebbe più preferibile produrre nel Tennessee, visto che per farlo dovrebbe rischiare verosimilmente di importare alluminio e acciaio rispettivamente gravati di dazi al 10% e 25%, quando potrebbe produrre un veicolo in Germania ed esportarlo negli USA successivamente, sottoponendosi a un dazio di appena il 2,5%, anche se del 25% per pick-up e furgoni; tranne di non immaginare che la produzione nazionale americana salga così velocemente da coprire l’intero fabbisogno domestico, ipotesi molto improbabile nel breve.
Dunque, la minaccia di dazi anche sulle auto da parte di Trump non è stata fatta a vuoto, ha un suo senso economico e rischia di esacerbare le tensioni con l’Europa, in particolare. A meno che da Francoforte non facciano gli occhi dolci al tycoon, lanciandogli subito messaggi cifrati rassicuranti. Per la cronaca, i tedeschi sarebbero in grado di reggere un cambio anche molto più forte di quello odierno, esportando perlopiù beni ad alto valore aggiunto. Il discorso non sarebbe automatico per le altre economie dell’area, tra cui l’Italia.
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