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Nel 1983, a cent'anni dalla nascita del Duce, Indro ribadiva il suo giudizio sul capo del fascismo
Non scopro di certo la polvere dicendo che per l'83 i motivi di preoccupazione non mancano. Ma bisogna aggiungervene un altro: il centenario della nascita di Mussolini, che, da quel che si vede e si sente in giro, si annuncia come più solenne, o almeno come più fragoroso, di quelli di Dante o di Leonardo.
"Mussolini non fu né un folle criminale né un grand'uomo"
Nel 1983, a cent'anni dalla nascita del Duce, Indro ribadiva il suo giudizio sul capo del fascismo
Non scopro di certo la polvere dicendo che per l'83 i motivi di preoccupazione non mancano. Ma bisogna aggiungervene un altro: il centenario della nascita di Mussolini, che, da quel che si vede e si sente in giro, si annuncia come più solenne, o almeno come più fragoroso, di quelli di Dante o di Leonardo.
E sarà una di quelle ventate come usano da noi, che sollevano polveroni in cui nessuno capisce più nulla.
Non posso tuttavia abbordare questo argomento prima di aver confessato i miei «peccati». Come tutte le persone nate «dentro» il fascismo (avevo dieci anni quando andò al potere), io fui fascista, dapprima entusiasta, poi sempre meno, finché nel '37 cambiai campo, e durante l'occupazione tedesca finii in galera. Debbo dire però che, se mi trovai male col fascismo, non mi trovai meglio dopo la Liberazione, con l'antifascismo, che pretendeva liquidare il ventennio di Mussolini come un eccesso di follia criminale, di cui era indecente persino parlare. Secondo me condannare il fascismo così in blocco senza concedergli nemmeno il diritto alla parola era un grosso e pericoloso errore. Prima di tutto perché offendeva il novanta per cento degli italiani, compreso il sottoscritto, che di quella follia erano stati partecipi. Eppoi perché a lungo andare avrebbe provocato, come tutti gli eccessi, una reazione specie nelle successive generazioni che, ignare di tutto, avrebbero pur voluto sapere come mai quella follia aveva trovato tanti seguaci. E siccome lo dicevo ad alta voce, venni quasi scacciato dalla comunità degli intellettuali democratici.
Ora che di fascismo e di Mussolini si ricomincia a parlare da tutte le parti, potrei quindi compiacermi e addirittura inorgoglirmi di aver azzeccato il pronostico. E invece no, perché i toni che sta assumendo questa improvvisa resurrezione e rivalutazione del Duce e del suo regime mi fanno capire che questo Paese non impara nulla e per rimediare a una sciocchezza non conosce altro metodo che commetterne un'altra.
Cerchiamo di vedere le cose al di fuori dei fanatismi e della propaganda. Mussolini non fu il folle criminale descritto fino a dieci anni fa dalla storiografia ufficiale, che voleva addirittura togliere la cattedra universitaria a De Felice perché si era messo a studiarlo. Ma non fu nemmeno il grand'uomo di cui ora comincia a riaffiorare, nelle rievocazioni, l'immagine. Fu un politico astutissimo, che nel '22 mise nel sacco tutti i suoi avversari «inventando» una rivoluzione che non c'era e una marcia su Roma che fu solo una sceneggiata. Fu un formidabile tribuno che sapeva incantare le folle. Ma non era, e non riuscì mai a diventare un vero uomo di Stato. Non seppe mai scegliersi dei collaboratori capaci anche perché era convinto di poter fare tutto da solo. E per di più il «culto della personalità», di cui in parte si fece e in parte fu oggetto dagli altri, finì per appannare le sue due maggiori doti naturali: il senso della realtà e la tempestività. Nella conquista del potere e anche nei primi anni del regime Mussolini non si era mai lasciato accecare da fumi ideologici e soprattutto aveva sempre scelto, per le sue mosse, il momento giusto: che in politica, e forse non soltanto in politica, è il segreto del successo. Ma via via che le lodi e gli incensi che gli prodigavano gli ammiratori (non soltanto italiani), e che sotto sotto lui stesso sollecitava, innalzavano il suo piedistallo, egli perdeva contatto col Paese reale, finì per credere che fosse davvero diventato quello «degli eroi, dei santi, dei navigatori» di cui favoleggiava nei suoi discorsi di piazza, e anche questi discorsi (un tempo mirabili per sobrietà e incisività) cominciarono a imbolsirsi di retorica. Fu in questa fase ch'egli compì i suoi fatali errori e peggio che errori: l'intervento in Spagna, le leggi razziali, l'alleanza con la Germania, la guerra.
Ecco ciò che ho sempre detto di Mussolini e del suo regime, e che fino a qualche anno fa mi esponeva, da parte degli antifascisti, all'accusa di fascista, o almeno di «nostalgico» del fascismo. Poco male: sono riuscito ugualmente a cavarmela, anche se con qualche incidente di strada. Ma non vorrei che dopo aver passato trent'anni di guai per via di questa etichetta, mi toccasse passare quelli che mi restano da vivere a farmi bersagliare come antifascista. Eppure, l'aria che tira è proprio questa di un'altra infatuazione per Mussolini, non meno balorda e faziosa della esecrazione che seguì la sua caduta.
Comunque, avendo vissuto quei tempi, rimango della mia opinione e la confermo. Coloro che appesero per i piedi Mussolini a piazzale Loreto non erano che brutali assassini. Ma essi non uccisero un grande statista. Uccisero soltanto un astuto capopopolo, padre di un regime largamente fallito. E se questo giudizio spiacerà sia ai vecchi detrattori di Mussolini che ai suoi nuovi ammiratori, vorrà dire che è giusto.
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