http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-04-28/cosi-sanzioni-usa-russia-isolano-mondo-colosso-dell-alluminio--191344.shtml?uuid=AE9jfOgE&refresh_ce=1
Ha ascoltato la loro preghiera? «Faremo noi una colletta - dicono i dipendenti di Rusal,interpellati dalla “Novaja Gazeta”-,daremo a Deripaska quanto potremo».Purché accetti le condizioni degli Stati Uniti,e faccia un passo indietro.
In Russia, una delle raffinerie più grandi dell’impero di Rusal è a Sayanogorsk,nel cuore della Siberia.Un impianto su cui vive l’intera città e che non è possibile fermare in tempi brevi sforna ogni giorno barre di alluminio che nessuno vuole più comprare, accumulate ovunque c’è spazio. Ma nell’era delle sanzioni globali, non soffrono soltanto la Russia e Oleg Deripaska a soffrire.
A Limerick,in Irlanda,i 450 dipendenti della più grande raffineria di allumina d’Europa - di proprietà di Rusal - si chiedono che ne sarà di loro. Integrata nei mercati globali, Rusal ha miniere e raffinerie dalla Giamaica alla Sardegna, ma se le sanzioni si propongono di chiudere all’alluminio russo i mercati americani ed europei(in Europa Rusal - secondo produttore al mondo - invia il 42% della produzione,negli Usa il 10%), è la fine anche per chi vende allumina e bauxite, le componenti chiave per produrre alluminio. E per chi di alluminio ha bisogno per fare macchine, aerei,telefonini, lattine di birra: i partner, i fornitori e i clienti di Deripaska sono giganti come Alcoa, Volkswagen, Rio Tinto, Glencore, Toyota.
Il quadro legale
Ubbidendo alle direttive del Tesoro Usa, a Londra la Borsa dei metalli ha chiuso a Rusal i magazzini sparsi per il mondo; le spedizioni si bloccano,i contratti restano sospesi,e i prezzi dell’alluminio vanno in tilt, salgono alle stelle e crollano: «Volatilità senza precedenti dal 6 aprile scorso», avverte il grafico della febbre sui terminali che quotano l’alluminio. Nella confusione generale, perfino le squadre di calcio che si preparano a partire per i Mondiali di Russia sono in difficoltà: alcune,come la Nazionale danese, dovrebbero atterrare in una delle città i cui aeroporti fanno parte dell’impero Deripaska, di cui il Tesoro Usa vorrebbe vedere declino e caduta.
Mosca contava sull’aiuto di Emmanuel Macron e di Angela Merkel, messi sotto pressione dalle rispettive associazioni di imprenditori: perché le sanzioni di Washington, per la prima volta,sono extraterritoriali, e prendono di mira anche cittadini o società non americane che restino in rapporti d’affari o detengano asset delle compagnie russe nella “lista nera”. Il quadro legale è intricato e vago,le dichiarazioni del Tesoro spesso incoerenti: ma nel dubbio, spiega al Sole 24 Ore una fonte a conoscenza della situazione in Rusal, i partner «tengono un profilo basso,non vogliono problemi. Temono di innervosire Washington, chiudono i contatti ancor prima delle scadenze.Perché certamente Rusal è una grande compagnia, ma avere problemi con il Tesoro Usa non conviene a nessuno».
E Washington non sembra voler fare concessioni. Il passo indietro annunciato il 27 aprile da Deripaska - la riduzione sotto il 50% della sua partecipazione in EN+,la holding che controlla Rusal con il 48,13% - «di per sé non garantisce la cancellazione delle sanzioni», fa sapere un portavoce del Tesoro che prenderà una decisione nei prossimi giorni. O settimane: ma per Rusal il tempo stringe.Inserendo il 6 aprile il nome di Deripaska e di otto sue compagnie tra quelli indicati dall’Ofac -l’Office of Foreign Assets Control che verifica il rispetto delle sanzioni - come “Specially Designated Nationals”, oligarchi e società messi all’indice perché ritenuti coinvolti nelle cosiddette “attività maligne” del Cremlino, il Tesoro aveva ordinato entro il 7 maggio l’interruzione di ogni legame finanziario con le compagnie citate. Tra queste,con Rusal ed EN+, si sanzionano per la prima volta società quotate in Borsa, di cui non sarà più possibile detenere azioni e obbligazioni. Al bando - inizialmente dal 5 giugno,scadenza poi spostata al 23 ottobre - anche ogni tipo di business con Rusal: significa che nessuno comprerà alluminio, bauxite e allumina, che le banche non permetteranno transazioni in dollari e la compagnia non potrà onorare i debiti e riscuotere pagamenti. Di colpo, l’impero è isolato.
I primi oligarchi
E con lui il suo fondatore, il cinquantenne Oleg Deripaska, fisico per formazione, imparentato con la famiglia di Boris Eltsin. Uno di quelli che vengono definiti oligarchi della prima ora, con parola detestata in Russia. Iniziò la sua scalata proprio a Sayanogorsk, raccogliendo le azioni distribuite tra i dipendenti delle industrie ex sovietiche che lo Stato privatizzava, emergendo vincitore dalle “guerre dell’alluminio” degli anni 90. Nel mirino degli Usa Deripaska è finito, apparentemente, per i legami con Paul Manafort,l’ex responsabile della campagna elettorale di Donald Trump nel 2016,ora sotto accusa per il Russiagate. Ma l’alluminio è al centro del progetto di Trump di rilanciare l’industria nazionale imponendo tariffe sul metallo altrui. E come ha scritto Leonid Bershidsky, editorialista di Bloomberg, «l’opportunità di prendere due piccioni con una fava - punire la Russia e cacciare un grosso concorrente straniero dal mercato americano - dev’essere sembrata troppo ghiotta».
RUSAL IN NUMERI
L’obiettivo di Trump
Nel limbo delle sanzioni, l’incertezza è il nemico più grande. «In un certo senso - ha scritto Sam Greene, direttore del Russia Institute al King’s College di Londra - questa continua danza di Washington attorno alle sanzioni alla Russia appare scombussolata e goffa, senza un focus e obiettivi chiari. Ma dal punto di vista di Mosca, Washington ha dimostrato sia la forza delle munizioni a sua disposizione, che i danni che possono causare». A più di venti giorni dall’ordinanza del Tesoro americano, la vera reazione del Cremlino non è ancora venuta.
Ha ascoltato la loro preghiera? «Faremo noi una colletta - dicono i dipendenti di Rusal,interpellati dalla “Novaja Gazeta”-,daremo a Deripaska quanto potremo».Purché accetti le condizioni degli Stati Uniti,e faccia un passo indietro.
In Russia, una delle raffinerie più grandi dell’impero di Rusal è a Sayanogorsk,nel cuore della Siberia.Un impianto su cui vive l’intera città e che non è possibile fermare in tempi brevi sforna ogni giorno barre di alluminio che nessuno vuole più comprare, accumulate ovunque c’è spazio. Ma nell’era delle sanzioni globali, non soffrono soltanto la Russia e Oleg Deripaska a soffrire.
A Limerick,in Irlanda,i 450 dipendenti della più grande raffineria di allumina d’Europa - di proprietà di Rusal - si chiedono che ne sarà di loro. Integrata nei mercati globali, Rusal ha miniere e raffinerie dalla Giamaica alla Sardegna, ma se le sanzioni si propongono di chiudere all’alluminio russo i mercati americani ed europei(in Europa Rusal - secondo produttore al mondo - invia il 42% della produzione,negli Usa il 10%), è la fine anche per chi vende allumina e bauxite, le componenti chiave per produrre alluminio. E per chi di alluminio ha bisogno per fare macchine, aerei,telefonini, lattine di birra: i partner, i fornitori e i clienti di Deripaska sono giganti come Alcoa, Volkswagen, Rio Tinto, Glencore, Toyota.
Il quadro legale
Ubbidendo alle direttive del Tesoro Usa, a Londra la Borsa dei metalli ha chiuso a Rusal i magazzini sparsi per il mondo; le spedizioni si bloccano,i contratti restano sospesi,e i prezzi dell’alluminio vanno in tilt, salgono alle stelle e crollano: «Volatilità senza precedenti dal 6 aprile scorso», avverte il grafico della febbre sui terminali che quotano l’alluminio. Nella confusione generale, perfino le squadre di calcio che si preparano a partire per i Mondiali di Russia sono in difficoltà: alcune,come la Nazionale danese, dovrebbero atterrare in una delle città i cui aeroporti fanno parte dell’impero Deripaska, di cui il Tesoro Usa vorrebbe vedere declino e caduta.
Mosca contava sull’aiuto di Emmanuel Macron e di Angela Merkel, messi sotto pressione dalle rispettive associazioni di imprenditori: perché le sanzioni di Washington, per la prima volta,sono extraterritoriali, e prendono di mira anche cittadini o società non americane che restino in rapporti d’affari o detengano asset delle compagnie russe nella “lista nera”. Il quadro legale è intricato e vago,le dichiarazioni del Tesoro spesso incoerenti: ma nel dubbio, spiega al Sole 24 Ore una fonte a conoscenza della situazione in Rusal, i partner «tengono un profilo basso,non vogliono problemi. Temono di innervosire Washington, chiudono i contatti ancor prima delle scadenze.Perché certamente Rusal è una grande compagnia, ma avere problemi con il Tesoro Usa non conviene a nessuno».
E Washington non sembra voler fare concessioni. Il passo indietro annunciato il 27 aprile da Deripaska - la riduzione sotto il 50% della sua partecipazione in EN+,la holding che controlla Rusal con il 48,13% - «di per sé non garantisce la cancellazione delle sanzioni», fa sapere un portavoce del Tesoro che prenderà una decisione nei prossimi giorni. O settimane: ma per Rusal il tempo stringe.Inserendo il 6 aprile il nome di Deripaska e di otto sue compagnie tra quelli indicati dall’Ofac -l’Office of Foreign Assets Control che verifica il rispetto delle sanzioni - come “Specially Designated Nationals”, oligarchi e società messi all’indice perché ritenuti coinvolti nelle cosiddette “attività maligne” del Cremlino, il Tesoro aveva ordinato entro il 7 maggio l’interruzione di ogni legame finanziario con le compagnie citate. Tra queste,con Rusal ed EN+, si sanzionano per la prima volta società quotate in Borsa, di cui non sarà più possibile detenere azioni e obbligazioni. Al bando - inizialmente dal 5 giugno,scadenza poi spostata al 23 ottobre - anche ogni tipo di business con Rusal: significa che nessuno comprerà alluminio, bauxite e allumina, che le banche non permetteranno transazioni in dollari e la compagnia non potrà onorare i debiti e riscuotere pagamenti. Di colpo, l’impero è isolato.
I primi oligarchi
E con lui il suo fondatore, il cinquantenne Oleg Deripaska, fisico per formazione, imparentato con la famiglia di Boris Eltsin. Uno di quelli che vengono definiti oligarchi della prima ora, con parola detestata in Russia. Iniziò la sua scalata proprio a Sayanogorsk, raccogliendo le azioni distribuite tra i dipendenti delle industrie ex sovietiche che lo Stato privatizzava, emergendo vincitore dalle “guerre dell’alluminio” degli anni 90. Nel mirino degli Usa Deripaska è finito, apparentemente, per i legami con Paul Manafort,l’ex responsabile della campagna elettorale di Donald Trump nel 2016,ora sotto accusa per il Russiagate. Ma l’alluminio è al centro del progetto di Trump di rilanciare l’industria nazionale imponendo tariffe sul metallo altrui. E come ha scritto Leonid Bershidsky, editorialista di Bloomberg, «l’opportunità di prendere due piccioni con una fava - punire la Russia e cacciare un grosso concorrente straniero dal mercato americano - dev’essere sembrata troppo ghiotta».
L’obiettivo di Trump
«La situazione è difficile, molto difficile», ammette la fonte del Sole. Che condivide l’ipotesi che all’origine di tutto ci sia una sola cosa, il mercato dell’alluminio. Se l’amministrazione Trump ha imposto dazi sulle importazioni dal resto del mondo, la quantità di alluminio russo che entra negli Usa è il doppio di quello cinese. E le sanzioni a Rusal sono uno strumento molto più efficace dei dazi. «Poiché Trump è seriamente intenzionato a rivitalizzare un’industria morta da qualche anno - spiega la fonte - con tariffe e sanzioni ha fatto in modo che il prezzo dell’alluminio salisse ai massimi di 6/7 anni. È un problema per chi produce macchinari, ma un bene per l’industria americana dell’alluminio che ha la ragione per rilanciare nuovi impianti. E creare nuovi posti di lavoro. Mentre Trump vince le prossime elezioni. Non si fermerà davanti a nulla».
Subito dopo l’ordinanza del Tesoro l’americana Citibank, depositaria delle azioni di EN+ a Londra espresse in GDR (Global Depositary Receipts), ha sospeso le transazioni per due giorni. Ma anche tagliare i ponti e disinvestire è problematico per gli azionisti perché gli stessi intermediari per il clearing, Euroclear e Clearstream, a loro volta preoccupati di violare i termini, non trattano più le azioni di EN+. «Neanche i consulenti legali, le banche o i regolatori sanno come comportarsi in questa situazione - sottolinea la fonte vicina a Rusal -. Quanto alla compagnia, sta facendo di tutto per informare il mercato sui provvedimenti presi, perché a questo punto bisogna salvare non solo la faccia, ma anche gli azionisti di minoranza. In fin dei conti, quello che qualche compagnia sta facendo anticipando le sanzioni è illegittimo, non è nelle regole». Ora il futuro è nelle mani della London Stock Exchange, che può decidere se cancellare il listing di EN+ - decretando anche la fine degli scambi effettuati a Mosca - o dare alla holding di Deripaska la possibilità di andare avanti.
«Poteva andare anche peggio», continua la fonte.Presentendo le sanzioni, alla fine dell’anno scorso Deripaska aveva dato ordine di discutere i possibili scenari e le azioni per minimizzarli almeno in parte, prendendo le distanze dal dollaro e mettendosi nelle condizioni di ripagare parte dei debiti (in totale, a fine 2017, 8,5 miliardi di $), e riscuotere pagamenti. «Gli accordi contrattuali denominati in dollari sono stati trasferiti in euro o altre valute, e sono state contattate le banche per trasformare i crediti del gruppo in crediti pagabili in euro o sterline o in rubli, nel caso di una banca russa». Ma è la stessa Rusal ad avvertire che potrebbe essere costretta a “default tecnici” su determinati impegni, debiti in dollari non più convertibili.Nel limbo delle sanzioni, l’incertezza è il nemico più grande. «In un certo senso - ha scritto Sam Greene, direttore del Russia Institute al King’s College di Londra - questa continua danza di Washington attorno alle sanzioni alla Russia appare scombussolata e goffa, senza un focus e obiettivi chiari. Ma dal punto di vista di Mosca, Washington ha dimostrato sia la forza delle munizioni a sua disposizione, che i danni che possono causare». A più di venti giorni dall’ordinanza del Tesoro americano, la vera reazione del Cremlino non è ancora venuta.
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