http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-04-12/russia-2-emergenze-economiche-che-putin-non-puo-piu-ignorare-210746.shtml?uuid=AE0muUXE&refresh_ce=1
La scena fece scalpore: Oleg Deripaska, uno degli uomini più ricchi di Russia, umiliato pubblicamente da Vladimir Putin. Era il giugno 2009, e il Cremlino lottava per contenere l’impatto sociale della crisi economica. E quando i dipendenti di una fabbrica di Pikaliovo cominciarono a bloccare le strade per difendere i propri posti di lavoro, Putin si precipitò in città, e ordinò bruscamente al «re dei metalli» di riprendere a pagare gli stipendi. Dandogli un giorno di tempo.
Oggi Putin non potrà più essere così severo con Deripaska e i suoi problemi, che fanno impallidire i guai di Pikaliovo: l’oligarca non ha più quasi nessuno a cui chiedere aiuto. Il suo impero, concentrato sulla holding EN+ e su Rusal, secondo produttore mondiale di alluminio, è colpito più di tutti dalle nuove sanzioni annunciate dagli Stati Uniti che di fatto si propongono di tagliare i ponti tra Deripaska e il mercato americano, dove Rusal è il secondo fornitore dopo il Canada.
Ma nella «lista nera» di Washington ci sono diversi altri grossi nomi dell’economia russa: e se le restrizioni entrate in vigore per la crisi ucraina erano circoscritte al settore della difesa e ad alcuni ambiti di quello energetico, mentre venivano limitati gli strumenti a disposizione delle imprese russe sanzionate per ridurre la loro possibilità di trovare nuovi finanziamenti a lungo termine in Occidente, oggi agli investitori americani - strategici e di portfolio, e non solo americani - viene negata la possibilità di effettuare transazioni, e di detenere e scambiare titoli con gruppi di grandi dimensioni e di portata globale, partner di multinazionali. Tremano anche le compagnie escluse dal “Kremlin Report” del Tesoro Usa: nessuno può dire con certezza se la “lista nera” non verrà allungata, anche oltre la cerchia ristretta del presidente russo.
Aleksej Mordashov, principale azionista e presidente di Severstal (acciaio), è stato il primo ad alzare la mano, e a chiedere l’aiuto del governo per le imprese colpite dalle sanzioni americane. Del resto, il premier Dmitrij Medvedev lo aveva già promesso. Lo Stato deve provare in tutti i modi a circoscrivere la crisi e a limitarne l’impatto sull’economia nazionale: i posti di lavoro che dipendono dagli oligarchi sono molti di più di quelli della fabbrica di cemento a Pikaliovo.
Nel 2009 e 2010 il cordone finanziario stretto attorno alle imprese più vulnerabili alla crisi economica permise al Cremlino di contenere i danni. Poi vennero la crisi ucraina e l’era delle sanzioni e degli embarghi, da cui dopo quattro anni l’economia russa stava cercando di uscire rafforzata dalla prova: meno dipendente dai finanziamenti internazionali, maggiormente incentivata a produrre da sé quello che non si poteva più importare, o che era diventato troppo costoso. Di fronte alla nuova offensiva americana, il grande interrogativo riguarda le risorse necessarie al Cremlino per proteggere gli oligarchi e - attraverso di loro - l’economia: saranno sufficienti?
Molto dipende dal rublo, travolto nei primi giorni della settimana dall’esodo degli investitori internazionali, insieme a Borsa e mercato obbligazionario. A sua volta, la valuta russa dipende ancora dal petrolio, in rialzo a causa della situazione in Siria: paradossalmente, se ci si potesse fermare al breve termine le sanzioni e il Medio Oriente sarebbero positivi per Mosca, perché il barile a 70 dollari combinato alla svalutazione del rublo sta facendo entrare più soldi nelle casse dello Stato.
Ma il calo della valuta potrebbe diventare insostenibile nel lungo termine, o se in Siria si arrivasse a un confronto militare tra russi e americani: la situazione geopolitica fa sì che non sia possibile prevedere l’andamento del rublo per i prossimi cinque minuti, osserva per The Bell Denis Davydov, analista di Nordea Bank. Una crisi prolungata vanificherebbe gli sforzi fatti dalla Banca centrale russa per mettere le briglie all’inflazione, mai così bassa ora che si avvicina al 2%.
E già preoccupa la possibilità che Bank Rossii sia costretta ad abbandonare la catena di manovre espansive, lasciando i tassi di interesse ai livelli attuali, al 7,25%: ancora troppo alti per aiutare una crescita che ha bisogno di investimenti. Il credito resterebbe troppo caro per le piccole imprese, mentre i grandi gruppi stretti dalle sanzioni avrebbero sempre meno porte a cui bussare: anche quelle delle grandi banche russe esposte negli Usa che, aiutando, verrebbero sanzionate a loro volta. Restano quelle che non hanno nulla da perdere.
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