Durante la cottura i cibi acquistano sapore e profumo, accentuano qualità organolettiche talvolta impercettibili negli ingredienti di partenza, spesso nascono e si sviluppano gusti del tutto nuovi ed aromi intensi si sprigionano nell’aria facendoci indovinare già sull’uscio di casa cosa cuoce in pentola.
Ma non solo. Anche la consistenza dei cibi cambia, alcuni si induriscono altri come pasta si ammorbidiscono, altri diventano croccanti solo all’esterno; ed anche senza chiamare in causa la cottura: come fa il latte a coagulare in formaggio, la maionese a formarsi da ingredienti di solito meno viscosi e la frutta secca a liquefarsi quando macinata finemente?
Sono come piccole meraviglie alle quali siamo abituati fin dalla nascita e che pertanto tendiamo a dare un po’ per scontate, ma ci siamo mai chiesti perché tutto questo accade? Come fanno gusti e profumi a svilupparsi nei cibi durante la cottura, come il tipo di aroma sia influenzato dalla scelta degli ingredienti della ricetta e magari come potremmo fare per modificare o correggere il gusto o la consistenza di un piatto andando ad agire “in modo scientifico” sulla scelta degli ingredienti, sulla loro preparazione, sulle condizioni di cottura e persino sugli accostamenti dei cibi?
Siamo nel pieno della cosiddetta “cucina molecolare”, l’approccio all’arte culinaria che partendo dalla conoscenza più profonda delle caratteristiche chimiche e fisiche delle materie prime e delle loro interazioni reciproche, tanto nel crudo quanto nel corso dei processi di cottura, guida le scelte e le modalità di preparazione degli alimenti secondo criteri che più che basarsi sull’esperienza, la tradizione o l’intuito creativo (come invece capita per la cucina tradizionale) si basino sull’approccio razionale e scientifico.
Di fatto, il ricorso concreto dell’approccio molecolare, ovvero l’utilizzo che ne viene fatto nei più noti ristoranti specializzati in questo tipo di cucina, è attualmente quello si stupire il cliente con piatti davvero originali, con gusti inediti e consistenze inconsuete di cibi ottenuti a partire da ingredienti spesso del tutto tradizionali. Secondo il mio modo di vedere le cose, tuttavia, comunque lo si voglia chiamare, l’approccio “molecolare” alla cucina non è necessariamente finalizzato a stupire l’assaggiatore con qualcosa di inaspettato.
Al contrario, anche un piatto ben conosciuto della nostra tradizione culinaria può essere realizzato tenendo ben presente la composizione chimica degli ingredienti, come le diverse sostanze naturalmente in esso contenute sono organizzate in strutture biologiche (sia sul piano macroscopico dei tessuti che su quello più microscopico delle cellule), come le molecole che compongono un cibo possono trasformarsi sotto l’effetto del riscaldamento, in presenza o in assenza di acqua, come cambia il loro modo di reagire e quindi i prodotti stessi delle reazioni in funzione della modalità di cottura, come si originano alcune molecole portatrici di aromi indesiderati (e quindi come possiamo evitarne la formazione), e così via. In aggiunta alla sconoscenza chimica, la cucina molecolare valorizza moltissimo quello che viene definito la “reologia” del prodotto, ovvero l’aspetto fisico, la struttura, la consistenza, la tessitura del prodotto, la sua palatabilità: anche per questi aspetti, importanti al pari del gusto per determinare la gradevolezza di un piatto, è fondamentale un approccio scientifico che tenga conto di quali fattori composizionali e strutturali influiscano sulle qualità descritte, misurabili attraverso una grande varietà di strumenti (penetrometri, viscosimetri, reometri in generale). Anche questi fattori risultano oltre che indagabili anche in buona misura “pilotabili” fin dalla scelta iniziale degli ingredienti, con un importante ruolo svolto dalle tecniche di preparazione e di cottura.
Conoscendo tutto o anche solo “qualcosa” di questo, tanto degli aspetti chimici che di quelli fisici, potremmo scoprire il modo di migliorare ulteriormente la qualità di un piatto già noto, attraverso accorgimenti a volte davvero minimi, come aggiungere un ingrediente insospettabile in più o modificare alcune dosi rispetto alla ricetta tradizionale, cambiare l’ordine di aggiunta dei soliti ingredienti o il modo di cuocerli insieme.
Di fatto l’approccio molecolare alla cucina considera giustamente tanto gli ingredienti quanto il prodotto finito per quello che effettivamente sono: miscele complesse di sostanze chimiche organizzate in comparti strutturati, questi ultimi di natura biologica quali appunto tessuti animali e vegetali, a loro volta costiuiti da cellule. Quindi la cucina molecolare non dev’essere intesa nel modo più assoluto come un modo di cucinare che faccia uso di “sostanze chimiche”, o meglio di sostanze chimiche estranee dagli ingredienti stessi già utilizzati in cucina o nel settore alimentare in genere: quello che cambia è il punto di vista, il criterio, il rapporto che il cuoco, togliendo il suo tradizionale cappello ed indossando una volta tanto il camice del chimico, riesce a ristabilire su basi nuove e profonde con la materia della quale sono fatti i cibi e con i metodi per la loro preparazione.
Accade così in molti casi di trovare semplicemente una conferma ai suggerimenti della nonna, tramandati di generazione in generazione, rivestendoli di un nuovo significato, quello dell’interpretazione molecolare, ma accade in taluni casi anche di sfatare vecchi miti e prassi in apparenza inappuntabili ma che a conti fatti risultano essere ne più ne meno di superstizioni in cucina.
Più interessante è il caso in cui vengono proposte alternative praticabili, suggerimenti semplici o complessi, talvolta un poco astrusi o difficili lì per lì da riconoscere come validi talmente possono in taluni casi staccare con la tradizione ed il nostro modo abituale di rapportarci alla cucina.
Il concetto fondamentale che vorrei trasmettere è soprattutto quello che la cucina molecolare non può essere banalizzata ad un elenco di ricette o di modalità di preparazione dei piatti. Dal momento che la scriviamo su un libro, estrapolandola dal contesto molecolare che ne ha determinato la nascita e ne ha guidato le scelte, una ricetta in sé è come se cessasse di essere di cucina molecolare: potrà rimanere una ricetta che usa metodi insoliti per creare piatti che stupiscono i commensali, ma l’aspetto molecolare è rimasto indietro, è rimasto incollato alle dita del chimico-chef che l’ha inizialmente concepita.
La cucina molecolare è quindi un modo di vedere le cose, e chi vuole conoscerla deve essere disposto innanzitutto ad imparare un po’ di chimica e magari anche un po’ di fisica e di biologia. Perché ogni cuoco molecolare per essere veramente tale dovrebbe avere la capacità di ideare da sé i suoi piatti, e con le competenze che egli possiede, sicuramente può farlo.
Ma non solo. Anche la consistenza dei cibi cambia, alcuni si induriscono altri come pasta si ammorbidiscono, altri diventano croccanti solo all’esterno; ed anche senza chiamare in causa la cottura: come fa il latte a coagulare in formaggio, la maionese a formarsi da ingredienti di solito meno viscosi e la frutta secca a liquefarsi quando macinata finemente?
Sono come piccole meraviglie alle quali siamo abituati fin dalla nascita e che pertanto tendiamo a dare un po’ per scontate, ma ci siamo mai chiesti perché tutto questo accade? Come fanno gusti e profumi a svilupparsi nei cibi durante la cottura, come il tipo di aroma sia influenzato dalla scelta degli ingredienti della ricetta e magari come potremmo fare per modificare o correggere il gusto o la consistenza di un piatto andando ad agire “in modo scientifico” sulla scelta degli ingredienti, sulla loro preparazione, sulle condizioni di cottura e persino sugli accostamenti dei cibi?
Siamo nel pieno della cosiddetta “cucina molecolare”, l’approccio all’arte culinaria che partendo dalla conoscenza più profonda delle caratteristiche chimiche e fisiche delle materie prime e delle loro interazioni reciproche, tanto nel crudo quanto nel corso dei processi di cottura, guida le scelte e le modalità di preparazione degli alimenti secondo criteri che più che basarsi sull’esperienza, la tradizione o l’intuito creativo (come invece capita per la cucina tradizionale) si basino sull’approccio razionale e scientifico.
Di fatto, il ricorso concreto dell’approccio molecolare, ovvero l’utilizzo che ne viene fatto nei più noti ristoranti specializzati in questo tipo di cucina, è attualmente quello si stupire il cliente con piatti davvero originali, con gusti inediti e consistenze inconsuete di cibi ottenuti a partire da ingredienti spesso del tutto tradizionali. Secondo il mio modo di vedere le cose, tuttavia, comunque lo si voglia chiamare, l’approccio “molecolare” alla cucina non è necessariamente finalizzato a stupire l’assaggiatore con qualcosa di inaspettato.
Al contrario, anche un piatto ben conosciuto della nostra tradizione culinaria può essere realizzato tenendo ben presente la composizione chimica degli ingredienti, come le diverse sostanze naturalmente in esso contenute sono organizzate in strutture biologiche (sia sul piano macroscopico dei tessuti che su quello più microscopico delle cellule), come le molecole che compongono un cibo possono trasformarsi sotto l’effetto del riscaldamento, in presenza o in assenza di acqua, come cambia il loro modo di reagire e quindi i prodotti stessi delle reazioni in funzione della modalità di cottura, come si originano alcune molecole portatrici di aromi indesiderati (e quindi come possiamo evitarne la formazione), e così via. In aggiunta alla sconoscenza chimica, la cucina molecolare valorizza moltissimo quello che viene definito la “reologia” del prodotto, ovvero l’aspetto fisico, la struttura, la consistenza, la tessitura del prodotto, la sua palatabilità: anche per questi aspetti, importanti al pari del gusto per determinare la gradevolezza di un piatto, è fondamentale un approccio scientifico che tenga conto di quali fattori composizionali e strutturali influiscano sulle qualità descritte, misurabili attraverso una grande varietà di strumenti (penetrometri, viscosimetri, reometri in generale). Anche questi fattori risultano oltre che indagabili anche in buona misura “pilotabili” fin dalla scelta iniziale degli ingredienti, con un importante ruolo svolto dalle tecniche di preparazione e di cottura.
Conoscendo tutto o anche solo “qualcosa” di questo, tanto degli aspetti chimici che di quelli fisici, potremmo scoprire il modo di migliorare ulteriormente la qualità di un piatto già noto, attraverso accorgimenti a volte davvero minimi, come aggiungere un ingrediente insospettabile in più o modificare alcune dosi rispetto alla ricetta tradizionale, cambiare l’ordine di aggiunta dei soliti ingredienti o il modo di cuocerli insieme.
Di fatto l’approccio molecolare alla cucina considera giustamente tanto gli ingredienti quanto il prodotto finito per quello che effettivamente sono: miscele complesse di sostanze chimiche organizzate in comparti strutturati, questi ultimi di natura biologica quali appunto tessuti animali e vegetali, a loro volta costiuiti da cellule. Quindi la cucina molecolare non dev’essere intesa nel modo più assoluto come un modo di cucinare che faccia uso di “sostanze chimiche”, o meglio di sostanze chimiche estranee dagli ingredienti stessi già utilizzati in cucina o nel settore alimentare in genere: quello che cambia è il punto di vista, il criterio, il rapporto che il cuoco, togliendo il suo tradizionale cappello ed indossando una volta tanto il camice del chimico, riesce a ristabilire su basi nuove e profonde con la materia della quale sono fatti i cibi e con i metodi per la loro preparazione.
Accade così in molti casi di trovare semplicemente una conferma ai suggerimenti della nonna, tramandati di generazione in generazione, rivestendoli di un nuovo significato, quello dell’interpretazione molecolare, ma accade in taluni casi anche di sfatare vecchi miti e prassi in apparenza inappuntabili ma che a conti fatti risultano essere ne più ne meno di superstizioni in cucina.
Più interessante è il caso in cui vengono proposte alternative praticabili, suggerimenti semplici o complessi, talvolta un poco astrusi o difficili lì per lì da riconoscere come validi talmente possono in taluni casi staccare con la tradizione ed il nostro modo abituale di rapportarci alla cucina.
Il concetto fondamentale che vorrei trasmettere è soprattutto quello che la cucina molecolare non può essere banalizzata ad un elenco di ricette o di modalità di preparazione dei piatti. Dal momento che la scriviamo su un libro, estrapolandola dal contesto molecolare che ne ha determinato la nascita e ne ha guidato le scelte, una ricetta in sé è come se cessasse di essere di cucina molecolare: potrà rimanere una ricetta che usa metodi insoliti per creare piatti che stupiscono i commensali, ma l’aspetto molecolare è rimasto indietro, è rimasto incollato alle dita del chimico-chef che l’ha inizialmente concepita.
La cucina molecolare è quindi un modo di vedere le cose, e chi vuole conoscerla deve essere disposto innanzitutto ad imparare un po’ di chimica e magari anche un po’ di fisica e di biologia. Perché ogni cuoco molecolare per essere veramente tale dovrebbe avere la capacità di ideare da sé i suoi piatti, e con le competenze che egli possiede, sicuramente può farlo.
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